È ormai divenuta una triste consuetudine quella di considerare i due rami del nostro amato fiume Tevere come “terra di nessuno”, dove è possibile fare più o meno di tutto senza correre il rischio di essere ritenuti responsabili. Avviene quindi un fenomeno paradossale per il quale chi violenta il territorio, a proprio esclusivo vantaggio, non viene nemmeno chiamato in causa e lasciato tranquillamente “operare”, mentre chi cerca invece di mantenere decoro e funzionalità viene posto sotto la lente di ingrandimento e a volte sanzionato.
Conosciamo bene, infatti, le realtà delle attività artigianali lungo le sponde del fiume che, giustamente, vengono monitorate severamente, sia in termini ecologici (scarichi, scarti di lavorazioni, contaminazioni), sia in termini di mantenimento delle caratteristiche fisiche degli argini e delle golene. Tutto ciò spesso trascende in un’ossessiva puntigliosa applicazione delle norme che, a scapito del territorio stesso, non ne permette neanche la normale manutenzione ordinaria. Basta vedere quanto tempo si è impiegato per l’inizio della protezione idraulica dell’isolotto di Tor Boacciana, ormai da anni in pesante erosione, che ne ha letteralmente “mangiato” circa 2500 m2.
In questo contesto generale si inserisce “perfettamente” la penosa consuetudine di taluni che, trasversalmente a tutto e a tutti, considerano il nostro corso d’acqua come cimitero di vecchie e meno vecchie imbarcazioni, abbandonate pericolosamente lungo gli argini, incuranti delle conseguenze di sicurezza e ambientali. Ricordiamo per i meno avvezzi che l’ormeggio delle unità, sia da diporto che da traffico lungo le sponde del fiume, è dettagliatamente regolato in generale dal diritto della navigazione e in particolare dalle specifiche ordinanze locali della Guardia Costiera. Tale normativa cessa però la sua piena applicazione in caso di navi che perdano l’imprescindibile requisito di navigabilità come, tra gli altri appunto, i relitti. Proprio avvalendosi di tale spiraglio normativo, che come di prassi nel nostro bel paese viene utilizzato per eludere il rispetto di una norma, numerosi armatori sconsiderati portano a morire le loro imbarcazioni lungo gli argini del biondo fiume inquinandone sia le acque che l’orgoglio storico.
Ricordiamo che la maggior concentrazione di relitti è individuata proprio in corrispondenza dell’Oasi di Porto avendone come massima espressione uno in particolare, dotato tra l’altro ancora di sigla e numero di iscrizione (targa n.d.r.), proprio all’ingresso principale degli scavi del Porto di Traiano; si è voluta forse sottolineare così la fine dei fasti dell’impero romano?
Se per qualcuno tuttavia tale panorama, passando lungo il fiume al tramonto di inverno, potrebbe assumere un aspetto malinconico e romantico, vi elenchiamo di seguito una minima parte delle sostanze rilasciate costantemente per decenni da queste simpatiche “espressioni antropologiche”: piombo, amianto, solventi, carburanti, oli lubrificanti, detergenti, clorofluorocarburi. Sono solo alcuni de più conosciuti elementi che costantemente vengono immessi nell’acqua e trascinati, grazie anche alla corrente costante, verso mare interessando spiagge e aree di pesca. Tali relitti non comportano altresì solo un problema ambientale ma di vero e proprio potenziale pericolo, sia per la navigazione che per l’eventuale trascinamento da parte della forte corrente della piena verso l’area centrale del paese e i relativi ponti di collegamento.
Come se non bastasse, inoltre, in un contesto di illegalità e indigenza, alcuni dei relitti non completamente sommersi sono stati colonizzati da senzatetto e clochard che spostano il problema da sicurezza generale a morale e umanitario.
Auspichiamo una quanto più rapida e definitiva soluzione a questo scempio ambientale e culturale che il nostro territorio decisamente non merita e che rischia di divenire un incentivo all’autoregolamentazione per tutti coloro che ancora vivono nella nostra comunità ignorando regole e principi morali.

Andrea Abbate